La recente sentenza n. 3312  – 2021 della Corte d’Appello di Roma afferma il principio di diritto secondo cui “in tema di impresa familiare, non è applicabile la disciplina di cui all’art. 230-bis c.c., con riferimento all’attività lavorativa svolta nell’impresa commerciale gestita da una società in nome collettivo di cui sia compartecipe il congiunto (o l’affine) del lavoratore, poiché il concetto di lavoro familiare, applicabile alle sole imprese individuali, è estraneo alle imprese collettive in genere e sociali in particolare, non essendo configurabile nella stessa compagine la coesistenza di due rapporti, uno fondato sul contratto di società e l’altro fra il socio e i suoi familiari, derivante dal vincolo familiare o di affinità”.

La vicenda in rassegna trae origine dall’appello interposto alla sentenza con la quale era stato respinto il ricorso presentato dalla moglie di uno dei tre fratelli che si alternavano nella conduzione di un bar, mediante la costituzione di una s.n.c., e volto ad ottenere la condanna di detta Società al pagamento di una somma a titolo di differenze retributive.

La principale questione giuridica sottesa al mancato accoglimento del ricorso attiene all’interpretazione posta in essere dal Giudice di prime cure con riferimento alle prestazioni svolte dalla ricorrente, le quali dovevano considerarsi a titolo gratuito, perché sorrette dalla c.d. affectio coniugalis.

Quindi, la ricorrente nell’appellare la sentenza sosteneva quale motivo di gravame che il Tribunale sia incorso in errore ritenuta gratuita la prestazione della stessa, in quanto resa all’interno dell’impresa familiare, non considerando che la Società non era una ditta individuale facente capo al coniuge della ricorrente, bensì una società in nome collettivo facente capo, come detto, ai tre fratelli (due dei quali, dunque, cognati della ricorrente ed estranei alla famiglia in senso stretto) e, pertanto, alcuna affectio coniugalis poteva nella specie realizzarsi.

Sul tale motivo di gravame, la Corte d’Appello romana ha ritenuto l’appello fondato, precisando che il lavoro familiare è solo quello reso nell’impresa in cui prestano attività di lavoro il coniuge dell’imprenditore, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, configurandosi altrimenti una inammissibile duplicità di rapporti, uno basato sul contratto di società e l’altro derivante dal vincolo familiare o di affinità.

Più specificatamente, il Collegio capitolino ha ritenuto che non possa applicarsi alla presente fattispecie lo schema della gratuità per affectio coniugalis, non potendosi operare il richiamo all’impresa familiare ex art. 230 bis c.c., che presuppone appunto la titolarità individuale dell’impresa.

Raccogliendo gli spunti che provengono dalla migliore Dottrina “l’art. 230 bis presuppone la rilevanza della famiglia estesa ed anche di quella di fatto, in quanto formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale ex art. 2, Cost. [C. 06/5632], regolamentando i rapporti che nascono all’interno di una impresa familiare, quando un familiare (o convivente) presti in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nella stessa impresa” (FRANCESCO GAZZONI “Manuale di Diritto Privato” – Capitolo XXI, pag. 326, XVII edizione).

La ratio della norma dinanzi citata risiede proprio nel risolvere la criticità, rectius, l’ingiustizia derivante dal fatto che, prima della riforma del 1975, i familiari che svolgevano attività lavorativa all’interno dell’impresa familiare non erano per nulla tutelati nei confronti dell’imprenditore.

Oltre all’imprenditore partecipano all’impresa i familiari (non necessariamente conviventi) della cerchia costituita dal coniuge, dai parenti entro il terzo grado e dagli affini entro il secondo.

V’è da notare che il rapporto familiare dovrà sussistere per tutto l’arco della vicenda e, pertanto, il divorzio rappresenta un motivo di scioglimento, come d’altronde anche la pronuncia di invalidità del matrimonio; occorre a tal proposito rilevare che gli effetti della sentenza eccezionalmente non retroagiscono.

Come è stato osservato dalla Dottrina, dal punto di vista del lavoro, la prestazione deve essere non saltuaria ma non necessariamente a tempo pieno.

Se c’è coordinazione e continuità il rapporto di lavoro è parasubordinato.

Inoltre, le mansioni possono essere le più varie, purché sempre strumentali all’attività imprenditoriale.

Ed ancora, all’attività di lavoro svolta, corrispondono innanzitutto i diritti previdenziali e quelli alla assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali, l’invalidità, vecchiaia e superstiti.

Infine, i partecipanti hanno poi diritto al mantenimento, la cui misura va rapportata alla condizione patrimoniale della famiglia ed è comunque superiore ai semplici alimenti (FRANCESCO GAZZONI “Manuale di Diritto Privato” – Capitolo XXI, pag. 329, XVII edizione).

L’istituto dell’impresa familiare come emerge dall’art. 230 bis c.c. ha natura residuale e suppletiva, in quanto diretta ad approntare una tutela minima ed inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari in passato ricondotti ad una causa affectionis vel benevolentiae o ad un contratto innominato di lavoro gratuito.

Pertanto, per poter configurare, nel lavoro di uno dei coniugi, una concreta collaborazione all’impresa suddetta non è sufficiente il solo fatto dell’adempimento di doveri istituzionalmente connessi al matrimonio – come quello di contribuire, in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, ai bisogni della famiglia e di provvedere alle esigenze della prole – , ma è necessario un apporto tale da poter riscontrare in esso un rapporto di lavoro per l’impresa, che deve avvantaggiare il coniuge imprenditore e l’intero nucleo familiare, senza limitarsi ad una generica collaborazione domestica.

Inoltre, nell’istituto in commento, caratterizzato dall’assenza di un vincolo societario e dalla insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del “capo” (quale riconosciuto dai partecipanti in forza della sua anzianità e/o del suo maggiore apporto all’impresa stessa), vanno distinti un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare – imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, diversi e indivisibili da quelli dell’intero gruppo, anch’essi oggetto della generica garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c.

Ne consegue che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all’impresa familiare.

Tuttavia, una parte della Giurisprudenza precisa come “ai fini dell’estensione del fallimento del titolare dell’impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell’effettiva costituzione di una società di fatto, attraverso l’esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all’impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del nomen della società o quanto meno l’esteriorizzazione del vincolo sociale ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all’esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell’impresa familiare, né l’eventuale condivisione degli utili, trattandosi d’indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla affectio societatis” (Cass. Civ. n. 144580/2010).

Ad integrazione delle considerazioni svolte è interessante considerare che è precluso al creditore personale del partecipante pignorare i beni dell’impresa, né espropriare la quota di partecipazione che non è precostituita e quindi non esiste in senso tecnico, né chiedere la liquidazione, per lo stesso motivo. Egli potrà solo pignorare le somme dovute, una volta venuto in vita il diritto di credito (FRANCESCO GAZZONI “Manuale di Diritto Privato” – Capitolo XXI, pag. 329, XVII edizione).

Infine, la perdita della qualità di partecipante avviene in caso di morte, cessazione del rapporto familiare (a mero titolo esemplificativo divorzio, annullamento del matrimonio), esclusione su delibera della maggioranza dei membri (ad esempio, scarso rendimento) oppure, secondo la Giurisprudenza di legittimità, ad iniziativa dell’imprenditore, salvo risarcimento del danno in caso di assenza di giusta causa (Cass. Civ. sentenza n.8959/1992), recesso, il quale è sempre efficace ma obbliga a risarcire il danno in mancanza di giusta causa (Cass. Civ. sentenza n. 13390/1992) ed infine per impossibilità a prestare oltre il proprio lavoro.

Ai fini che qui interessa, è utile ricordare che appartiene alla competenza per materia del Giudice del lavoro la domanda diretta a far valere i diritti patrimoniali riconosciuti ai familiari dall’art. 230 bis c.c., per la collaborazione nell’impresa familiare caratterizzata dai requisiti della continuità, coordinazione ed esplicazione prevalentemente personale, poiché in tal caso, determinando l’impresa familiare un rapporto associativo preordinato alla tutela del lavoro familiare, si verte nell’ipotesi prevista dall’art. 409, n.3, c.p.c., del rapporto di collaborazione con carattere di parasubordinazione (Cass. Civ. sentenza n.8685/1994).

Sul tema della natura dell’impresa familiare si sono sviluppate in seno alla Dottrina due tesi antitetiche.

Secondo un’opinione si sarebbe in presenza di una impresa collettiva, come tale rilevante nei rapporti esterni di fronte ai terzi, con assunzione, dunque, di responsabilità parimenti collettiva ed acquisto della qualità di coimprenditore da parte di tutti i partecipanti o almeno di coloro che hanno agito (BUSNELLI, RTDPC 76, 1417).

Secondo un’altra opinione, invece, che meglio spiega la disciplina concreta, imprenditore è invece solamente colui al quale spetta tale qualifica, di regola il fondatore.

Si tratta quindi in ogni caso di una impresa individuale, cosicché, come detto, solo il singolo titolare risponde con il proprio patrimonio dei debiti dell’impresa verso i terzi e, di conseguenza, può fallire in caso di insolvenza (FRANCESCO GAZZONI “Manuale di Diritto Privato” – Capitolo XXI, pagg. 328 – 329, XVII edizione).

Tale tesi si adatta perfettamente al caso in esame, ed infatti l’arresto in commento ha offerto corretta applicazione dei noti principi interpretativi, secondo i quali non è applicabile la disciplina di cui all’articolo 230 bis del c.c., con riferimento all’attività lavorativa svolta nell’impresa commerciale gestita da una società in nome collettivo di cui sia compartecipe il congiunto (o la fine) del lavoratore, poiché il concetto di lavoro familiare, applicabile alle sole imprese individuali, è estraneo alle imprese collettive in generale e sociali in particolare, non essendo configurabile nell’ambito della medesima compagine, la coesistenza di due rapporti, uno fondato sul contratto di società e l’altro, fra il socio e i suoi familiari, derivante dal vincolo familiare o di affinità (Cass. Civ., sentenza n. 11881/2003).

In proposito la Suprema Corte a Sezioni Unite ha anche di recente ribadito che l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria, attesa non solo l’assenza nell’articolo 230-bis c.c. di ogni previsione in tal senso, ma, soprattutto, stante l’irriducibilità ad una qualsiasi tipologia societaria della specifica regolamentazione patrimoniale ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, che sono determinati in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, ponendosi altresì il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario.

Tale soluzione, inoltre, è coerente con una interpretazione teleologica della norma – introdotta dalla riforma del diritto di famiglia con una norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali (art. 89, Legge n. 151 del 1975) – che, come si evince dall’incipit dell’art. 230 bis c.c., prefigura l’istituto dell’impresa familiare come autonomo, di carattere speciale (ma non eccezionale) e di natura residuale rispetto ad un altro rapporto negoziale eventualmente configurabile (Cass. Civ., SS. UU., sentenza n. 23676/2014).

Ne discende, alla luce delle superiori considerazioni, come, a differenza dell’impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (articoli 2251 e ss. c.c.), l’impresa familiare di cui all’articolo 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili.

Ne consegue pertanto che, in caso di morte del titolare, non è applicabile la disciplina dettata dall’articolo 2284 c.c., che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone, ma l’impresa familiare cessa e i beni di cui è composta passano per intero nell’asse ereditario del de cuius, rispetto a tali beni i componenti dell’impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi ed un diritto di prelazione sull’azienda.

 In conclusione, come detto, l’arresto in commento risulta essere di particolare interesse, in quanto la Corte d’Appello di Roma ha fatto buon governo, non solo dei principi Giurisprudenziali, ma anche della più attenta Dottrina sul punto, in ordine alla interessante tematica dell’impresa familiare e delle situazioni giuridiche con essa regolate, con particolare riferimento alla disciplina del familiare – lavoratore.

 

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